23 ottobre 2007

LA PSICOLOGIA DEL GIOCO

Lo sport è gioco caratterizzato da finalità agonistiche, per cui non esiste sport che non sia competitivo, ma non esiste neanche sport che non sia strutturato sulla base inevitabile del gioco.
Perciò uno studio sulla psicologia dello sport non può prescindere da considerazioni sulla psicologia del gioco.
Il gioco è essenzialmente un fenomeno di natura psicologica, ma i suoi aspetti sono così multiformi e complessi che da sempre esso ha attirato l’interesse degli studiosi di diverse discipline. In realtà non è facile definire che cosa esattamente si intenda per gioco. Secondo una prima definizione, il gioco è un’attività fine a se stessa, cioè una “finalità senza fine”, che è piacevole di per sé e si sottrae alle categorie temporali e che, proprio per queste caratteristiche, si contrappone all’attività lavorativa (Neri, 1959).
E’ piuttosto il modo in cui l’attività ludica si svolge, ciò che la caratterizza: plasticità, adattabilità, libertà, sono le caratteristiche che il gioco ha in comune con l’attività fantastica, cui è strettamente legato. Come la fantasia, anche il gioco è espressione di un preciso fine individuale che non è puramente biologico, come voleva Spencer, secondo il quale il gioco è essenzialmente una manifestazione di energia in “più”, sovrabbondante rispetto agli scopi vitali (Alexander, 1958), o come voleva Gross, secondo il quale esso costituirebbe una forma di esercizio che prepara, negli animali e nell’uomo, le funzioni adulte. Attività fantastica ed attività ludica sono piuttosto delle forme di espressione e di espansione della personalità, dei modi di superamento e di anticipazione del reale. Il gioco è quindi un fenomeno fondamentale della evoluzione psichica della persona, un potente strumento di maturazione e di adattamento, un’espressione del passaggio dall’isolamento dell’inconscio alla relazione sociale dell’io (Quadrio, 1962).
La difficoltà di dare una definizione ed una interpretazione univoca del gioco è in rapporto con la molteplicità delle espressioni: lungo le varie tappe dell’età evolutiva il bambino gioca in modi sempre nuovi e, forse, con intenti sempre nuovi.
Lo studio di quelle che Chateau ha chiamato “strutture ludiche” mostra che allo sviluppo progressivo delle varie funzioni, sempre più complesse ed integrate, corrisponde nel bambino la possibilità di altrettanti comportamenti ludici, che sono espressione della integrazione di attività elementari in comportamenti più complessi. Esistono vere e proprie strutture elementari (camminare, correre, ecc.) che, variamente integrandosi in schemi percettivi, motori ed intellettivi sempre più complicati, danno origine ad una serie di comportamenti di gioco che affiorano gradualmente alle varie età. Non bisogna però cadere nell’errore di intendere il gioco (come del resto qualunque altro fenomeno psicologico) come l’effetto di una graduale maturazione di funzioni epigeneticamente presenti nell’organismo; è vero, invece, che, l’ambiente familiare e sociale, con tutte le variabili affettive che comporta, condiziona fortemente le possibilità e le modalità evolutive.
Una prima fase dell’attività ludica corrisponde al gioco puramente funzionale inteso come soddisfazione, fine a se stessa, di esercitare un’efficienza sensoriale e motoria.
Ad un livello più differenziato compare, nel bambino, il gioco destinato ad un fine più esplicito, che è quello di provare le proprie forze, di avere consapevolezza oltre che padronanza dei propri movimenti, di imitare alcune attività che appaiono espressione specifica dell’essere adulto: nel gioco il bambino realizza la duplice possibilità di imitare l’adulto anticipando la propria evoluzione e di sfuggire la responsabilità dell’adulto restando ancorato al suo illusorio rapporto con la realtà. Il gioco non esprime solo il desiderio di rimanere bambini, ma, come dice Freud, si manifesta sotto l’influenza del potente desiderio individuale di crescere. Il bambino trova nel gioco uno sfogo che gli consente un confronto paradossale con la realtà: si crede libero e non è più frustrato dal rapporto con il reale, crea situazioni immaginarie che attivamente affronta e domina, aiutandosi così a sopportare e superare l’ansia delle concrete situazioni vitali.
Possiamo dire che il bambino si crea con il gioco il proprio mondo e ricostruisce una situazione spontanea in cui proietta tutte le tendenze che corrispondono alla sua realtà interiore. Nel gioco, il divieto viene fatto proprio dal bambino e trasferito su qualche oggetto esterno che lo rappresenta simbolicamente. Ad esempio: il bambino che è stato frustrato da un divieto paterno, ripete lo stesso divieto al suo orsacchiotto, con cui si è identificato e, nel ripeterlo attivamente, finisce sostanzialmente per accettarlo. Bisogna aggiungere anche un’altra caratteristica “terapeutica” del gioco escogitato dal bambino: il ripetersi della situazione consente di viverla con una sempre minore partecipazione ansiosa, proprio perché la situazione frustrante viene ogni volta superata. E’ importante, a questo proposito, soffermarsi un momento su un elemento essenziale per comprendere bene il fenomeno del gioco: il concetto di attività ripetitiva. In realtà, questo concetto sembrerebbe in qualche modo in contrasto con il carattere di libertà, di giocosità e di spontaneità del gioco; la ripetizione implica, infatti, un certo grado di organizzazione e, quindi, di limitazione. Bisogna, d’altra parte, considerare che il concetto di ripetizione applicato al gioco non si riferisce tanto alla ripetizione derivante da stimoli applicati dall’esterno, quanto a quella che deriva dall’interazione spontanea delle tendenze e degli impulsi interni. E’ noto, del resto, come il comportamento ripetitivo non possa essere inquadrato in una interpretazione univoca: esso può essere meglio definito secondo alcune categorie. Abbiamo, in primo luogo, la ripetizione che deriva dalla normale periodicità di certi bisogni periodici (basti pensare alle attività biologiche primarie come il sonno ed il nutrimento). Un’altra categoria di comportamenti ricorrenti è espressione della continua lotta che si svolge tra gli impulsi biologici rimossi nell’inconscio e le controforze psicologiche che agiscono in senso repressivo. Esiste poi un terzo tipo di ripetizione: è quello che riguarda le esperienze traumatiche, che vengono rinnovate nella rappresentazione mentale e nell’azione allo scopo di renderle sempre più dominabili e, quindi, accettabili. Questo tipo di ripetizioni è quello che più direttamente interessa il fenomeno gioco, in cui molte volte si realizza. Qui la ripetizione è messa in atto perché è un mezzo per scaricare gradualmente la tensione che si è venuta a creare nell’organismo in seguito ad una situazione traumatica, di frustrazione; poiché la ripetizione si svolge in condizioni favorevoli al soggetto, poiché il gioco è sotto il suo controllo, un’ulteriore rassicurazione è ottenuta con l’inversione dei ruoli, cioè con il fatto che il bambino, giocando, ogni volta che lo può, assume il ruolo del più forte, del più potente, mentre assegna la parte passiva, debole e sofferente ad un giocattolo o ad un altro bambino. Mediante questo meccanismo, il bambino può rivivere in forma attiva ciò che prima ha sperimentato passivamente.
Il gioco ha anche una funzione psicoterapeutica. In esso, infatti, il bambino ha la possibilità di esprimere la sua esuberanza vitale, di avvicinare la realtà in forma meno frustrante e più libera, di manifestare in forma simbolica i suoi problemi. Tutto ciò contribuisce a rendere il gioco una sorta di valvola di sicurezza, attraverso la quale le esperienze vitali possono essere vissute in forma più sopportabile, in modo che il bambino non avverta più il bisogno di fuggire da esse, ma possa fronteggiarle e sentirsi capace di dominarle e assorbirle nella sua consapevolezza (Bristol). E’ quindi evidente la funzione preventiva e terapeutica del gioco, funzione che si svolge spontaneamente, quale espressione, naturale in tutti i bambini, della capacità individuale di autoregolazione e di adattamento e che può anche divenire strumento tecnico, guidato ed organizzato scientificamente a fini psicoterapeutici.
Il problema della tecnica psicoterapeutica basata sul gioco si fonde essenzialmente sulla interpretazione del gioco stesso: esistono diversi modi di interpretazione, ma alla base di ogni diversa impostazione tecnica sta la considerazione che il gioco costituisce la forma espressiva più significativa dell’età infantile e che, pertanto, tiene luogo delle altre forme di comunicazione proprie dell’adulto.