15 luglio 2015

Identità e talenti

Ultimamente alcune persone, perlopiù quelle che soffrono di un senso di inferiorità e di insicurezza, e che hanno perso alcuni punti di riferimento acquisiti per discendenza parentale, quindi non conquistati sul campo, ma ereditati attraverso un “fattore dinastico”, sostengono sia necessario ritrovare l’IDENTITA’. Sì, parlano di identità nazionale, identità regionale, identità provinciale, identità di cittadinanza, identità paesana, identità rionale, identità del viale e addirittura qualcuno parla di identità nel gioco del calcio! In un’epoca come questa globalizzata, fa venire quasi i brividi parlare di identità: siamo tutti cittadini del mondo, siamo tutti viaggiatori e scopritori di nuove culture. È per questo motivo che a me pare, invece, sia necessario scoprire e conservare una identità e, contrariamente a quanto si pensava fino a pochi decenni fa, individuarla solo sconfinando nelle terre, nelle esperienze e nella cultura altrui. Credo cioè che ci sia bisogno, proprio oggi, di superare i margini, scavalcare i limiti geografici, confondersi con le antropologie diverse dal sé, per ritrovare il proprio ritratto, la propria posizione nel mondo, la propria identità. È vero che il concetto di identità rimane sempre lo stesso dai tempi di Aristotele (che non è il famoso giocatore di calcio della famosa formazione di Oronzo Canà, precursore di una identità, la BIZONA) ai giorni nostri, ma l’identità cambia. Io penso che la nostra identità risieda nei nostri talenti, cioè che la nostra vera identità si possa esprimere solo per mezzo di quello che noi sappiamo fare bene. Talento oggi è una parola di gran moda, ma definiamo il talento, cioè una “Attitudine innata di un individuo che, quando espressa, consente di svolgere con facilità e naturalezza attività normalmente considerate difficili e, quando finalizzata, consente di ottenere risultati non ordinari”. Oggi si selezionano talenti, si giudicano talenti, si escludono talenti. Tutti sono alla ricerca di talenti. Pochi valorizzano i talenti, quasi tutti li vogliono ingabbiare affinché possano esprimere una volontà progettuale predefinita. Nella mia, direi ormai lunga, carriera nel mondo del calcio, prima da giocatore, poi da istruttore ed ora da coordinatore tecnico, ho visto trasformare dei talenti in “eroi della normalità”, con lo scopo di far esprimere loro una identità collettiva non ben definita. Noi oggi, in tutti i campi, abbiamo la difficoltà di trattenere i talenti. Noi dovremmo aiutare ogni individuo ad esprimere il proprio talento per poter avere ancora la nostra identità, fatta di persone capaci di affermarsi e di garantire un futuro. La persona al centro di tutto, al centro di un progetto condiviso da tutti. Solo così potremo concorrere all'affermazione della più intima identità. Questo cosa vuol dire nel gioco del calcio? Nel calcio ho visto squadre piene di talenti non centrare obiettivi e altre, invece, dove giocatori normalissimi che hanno potuto mettere in campo il proprio peculiare talento al servizio di un progetto condiviso, hanno ottenuto risultati straordinari. Sono convinto altresì che soprattutto il giovane calciatore, per poter esprimere il massimo di se stesso ed identificarsi con un progetto, debba condividerlo, rendendosi conto che questo potrà valorizzarlo e non penalizzarlo. Deve, giocando liberamente nella percezione e nell’elaborazione del gioco stesso, poter andare oltre i facili stereotipi che ogni allenatore o dirigente, per eccesso di zelo nei confronti della propria società, può dettargli. Attualmente chi decide di dare un’identità rigida al proprio gioco forma caricature di giocatori che non sono autentici e quindi acquisiscono una falsa identità. Dobbiamo formare giocatori che abbiano un’idea di se stessi, di cosa sanno e di cosa dovranno sapere, cioè che abbiano competenze utili a risolvere situazioni del gioco che verrà. Quello che qualcuno sta facendo ora, predicando di esibire la propria identità, è puro esibizionismo. E nell’esibizionismo c’è poca autenticità, c’è semmai solo bella mostra di una parte di sé.

13 luglio 2015

Dinamismo di un giocatore di calcio

Il calcio è la mia vita, ne parlo quotidianamente, ma in questo spazio mi piacerebbe narrare anche altro. Ho preso spunto da un lavoro nato all'interno della Pinacoteca di Brera lo scorso anno, dedicato al racconto dei dipinti attraverso delle esperienze di vita personali. Mi hanno colpito molto quelle narrazioni, così ho pensato ad un quadro con cui, un po', questo blog è nato.
Vi chiedo per un momento di venire con me dentro al quadro. Eccoci. Per un attimo tralasciamo i dati realistici e facciamoci prendere dalla sensazione di essere in movimento. Le emozioni scaturiscono in modo spontaneo e ci imbattiamo in un conflitto: la memoria. La memoria è il modo più potente per fissare i ricordi e, una volta fissati, i ricordi sono difficili da rimuovere. Qui dentro affiorano i miei ricordi più vischiosi, quelli che provocano emozioni forti. Questo sono io che non ho colpito bene la palla. Questo sono io che corro dietro ad un avversario. Questo sono io che salto. Questo sono io che mi tuffo. Questo sono io… i colori, gli spazi si dispongono attorno a me come in una girandola di emozioni. Ci stiamo muovendo, stiamo giocando e lasciamo che le nostre emozioni vadano e vengano in modo spontaneo. Ascoltiamo i rumori di questi movimenti, è il messaggio della vita che si sta svolgendo intorno a noi. Annulliamo le grida dei tifosi, i canti delle curve, la musica dagli altoparlanti e ascoltiamo, portati dal vento, il brusio soffocato dei compagni di gioco, il nostro ansimare durante la corsa, il frusciare degli scarpini sull’erba. Tutto cambia di significato, tutto è più bello e tutto è profonda emozione. Suoni e rumori ci informano di quanto avviene intorno a noi… … io sento la voce di mio nonno Attilio. Siamo all’oratorio, ho undici anni e sto giocando a calcio. Ho lasciato incustodita la mia bicicletta, quella rossa fiammante da corsa che mi ha regalato lui. Mi sta guardando, disapprova il mio gesto. Lui vorrebbe che corressi in bicicletta. Lui ha corso con Binda e Girardengo e ha sempre odiato il calcio da lui giudicato lo sport del potere fascista. Ricorda ancora le foto sui giornali di quei saluti fascisti prima delle finali mondiali del ‘34 e del ‘38 e quella che nessuno ricorda a Berlino nel ‘36. Mi amava mio nonno, lui mi considerava il suo nono figlio, stravedeva per me, ma non sopportava il fatto che giocassi a calcio. No, quello non me lo perdonava. Io invece amavo e amo quel gioco perché mi penetra la mente e mi porta verso confini inesplorati e di quel gioco ne ho fatto una professione, una passione vitale. Quando debuttai nei professionisti quel giorno di novembre, a bordo campo, con il suo pastrano e il suo cappello a grandi falde, c’era lui con il sigaro in bocca ed un sorriso benevolo che mi diceva: “Amo tutto ciò che ami, figlio mio”. Mio nonno era una persona splendida, rigido nelle sue idee, ma di una coerenza assoluta, al limite dell’autolesionismo. Il suo valore più grande era l’amore per la famiglia. Nato nel 1899 alla periferia di Milano, faceva il contadino e la sua qualifica era quella di mungitore. Contro la sua volontà riuscì a farsi un anno di guerra. Odiava la guerra e odiava ancor di più gli interventisti e probabilmente avrebbe odiato anche Boccioni. Nei suoi racconti sulla guerra, davanti alla stufa nelle serate invernali, sbeffeggiava quegli intellettuali che volevano a tutti i costi la guerra per poi, al primo assalto, piangere come vitelli davanti a fotografie di fidanzate o di familiari. Erano i primi a morire sotto il fuoco nemico, diceva mio nonno, “perché privi di quel coraggio che ci vuole per sopravvivere”, ribadiva tirando una boccata di sigaro dalla parte ardente. Mio nonno era così spontaneo e fumino, a lui saltava subito la mosca al naso. Nella sua testa c’era quel briciolo di pazzia che gli faceva prendere sempre la decisione più scomoda e difficile del momento. Come quella volta che tornando da una trincea del Carso, decise che doveva concedersi una licenza e senza dire nulla a nessuno se ne andò a casa a trovare sua madre ammalata. Non fece in tempo ad arrivarci che fu preso dai carabinieri e riportato al fronte dove per punizione venne esposto al palo in trincea a circa cento metri da quella austriaca. Gli Austriaci erano a un tiro di schioppo, lo vedevano perché era pieno giorno, ma non sparavano. Gli Austriaci probabilmente pensavano: “Quello lì legato al palo è contro al suo esercito, è punito, non spariamo”. Si salvò e appena lo ritirarono da quella postazione di morte, picchiò a sangue il sottotenente che lo insultava dandogli del vigliacco. Così lo presero e lo rimisero sul palo per un’altra mezza giornata. Mio nonno era un contadino ignorante, ma una cosa aveva ben in testa: l’istinto di sopravivenza, aveva il coraggio di vivere. Fu questo che lo riportò a casa da questa e da altre guerre e non l’amor patrio. Umberto Boccioni, empio di amor patrio, era un interventista accanito e con Marinetti condivideva il concetto: “Guerra, la sola igiene del mondo”. Allo scoppio della prima guerra mondiale venne arruolato e distaccato presso il battaglione d’artiglieria d’istanza a Verona. Boccioni partì soldato semplice, lui non desiderava particolari attenzioni, voleva essere uno dei tanti e fare l’esperienza della guerra vera. Solo così, pensava, poteva osservare in modo attivo le situazioni, trarne una morale ed esprimere le emozioni che suscitava un evento drammatico com’è la guerra. Sulle sue tele, trasformando in vorticose nuvole d’energia tutti quei movimenti di uomini e mezzi, avrebbe raffigurato lo strano universo umano. Ma nel suo percorso esperienziale di soldato incontrò una cavalla, certa Vermiglia, che scombussolò i suoi piani, disarcionandolo e trascinandolo nella polvere, facendogli assaporare fino in fondo, fino alla morte, l’umiliazione di chi pensa di essere eterno e immortale e non lo è. Così, in un bel giorno di primavera, quando gli alberi trovano il coraggio di credere che l’inverno sia finito, Boccioni cercava di cogliere un bocciolo da un albero in fiore, ma Vermiglia aveva deciso di portarlo all’apice che si protende verso l’ignoto, verso l’immortalità. Vermiglia vedendo un bagliore in lontananza si mise a galoppare e fu quello il momento fatidico dove Umberto, assertore della velocità, fu sorpreso e scaraventato a terra e, battendo la testa, i suoi pensieri rimasero inermi e immobili sull’espressione artistica di quel fiore ancora in divenire. Vi chiedo di venire ancora con me dentro al quadro. Lo osservo… ritorno a me, alla mia gioventù, quando nelle giornate di primavera inoltrata, sole e brezza sul viso, tutto filava liscio e mi ritrovavo a studiare arte, per l’esame di licenza media, nell’orto di mio nonno. Lui che era curioso come solo un contadino sa essere, si avvicinava e, attirato dai quadri di Boccioni, mi chiedeva cosa fosse rappresentato in quell’insieme di macchie di colore. Gli spiegavo chi fosse l’autore e cosa volesse esprimere nei suoi dipinti, lui scrollava la testa e diceva in dialetto milanese: “El me pias no” (non mi piace). Nonno Attilio era di poche parole. Lo guidava l’istinto, quello che lo aveva fatto sopravvivere in guerra, quell’istinto fatto di sensazioni, di viscere, di natura, e se diceva che una cosa non gli piaceva, non c’era verso di fargli cambiare opinione. Lui, anima umile e semplice, non apprezzava quest’arte astratta, non legata alla realtà vera. A me, invece, Boccioni piaceva. Il dinamismo del giocatore mi trascinava al centro del quadro e tutto intorno era reale: ero io che giocavo a calcio nei colori, nel rosso, nell’azzurro dell’aria, nel verde dell’erba, nel giallo della luce. Ero io, ero energia pura! Atmosfera e movimento in un’unica fusione. Cercavo di trasmettere al nonno quelle sensazioni ancora acerbe ma potenti e lui ascoltava in silenzio, mentre continuava a potare le piante da frutto dell’orto. Non capiva, così come non capiva quel dinamismo violento, così come non capiva il perché giocassi a calcio, ma per amore diceva: “Se piace a te, sarà sicuramente bello”. Lo amavo, amavo la sua concreta consapevolezza, ma come ogni ragazzino ero attratto da quel sogno di gloria impalpabile e avvolgente che solo il futuro può far intravedere. Quel futuro che si era negato ad Umberto, ma che si era presentato puntuale ad Attilio attraverso me che oggi posso essere espressione di entrambi, raccontandovi di come un uomo pragmatico e reale possa ancora entrare in un quadro, correre e gridare “Gol”!